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Der letzte Mann (L’ultima risata, 1924), Friedrich W. Murnau

  • Immagine del redattore: Vittorio Renzi
    Vittorio Renzi
  • 8 nov 2015
  • Tempo di lettura: 4 min

Garden of silence_Der letzte mann

SINOSSI: Il portiere (Emil Jannings) del Grand Hotel Atlantic di Berlino, dapprima rispettato e riverito, ormai anziano e debole viene degradato dal direttore e confinato a sorvegliare i gabinetti. Il vecchio, privato della sua divisa di cui andava tanto fiero, si sente crollare il mondo addosso, anche perché i vicini di casa e gli abitanti del suo quartiere, che prima tanto lo ammiravano, ora hanno preso a deriderlo. Ma grazie ad una eredità da uno zio d'America, l’uomo può fare ritorno nell'albergo, e questa volta in veste di ricco cliente.



“Ecco una tragedia tedesca per eccellenza, che non è comprensibile se non in un paese dove l’uniforme è sovrana, è Dio. Uno spirito latino stenta a concepire la portata tragica” Lotte Eisner (1)


Der letzte Mann, già all’epoca, venne salutato in tutto il mondo come un’opera fortemente innovatrice dal punto di vista del linguaggio cinematografico. L’assenza pressoché totale di didascalie – ve ne sono soltanto due, quella introduttiva e un'altra prima della “svolta” del film, oltre ad alcuni testi scritti facenti parte della diegesi – testimoniano l’assoluta fiducia di Murnau nella forza (esplicativa, espressiva) e nell'autonomia delle immagini. Qui Murnau e il suo geniale operatore, Karl Freund, fanno cose incredibili con la macchina da presa: piani sequenza memorabili (come quello iniziale, giustamente celebre), movimenti improvvisi in avanti che sopravanzano gli attori, simulazioni in soggettiva dello stato di ubriachezza del protagonista, con “giravolte” della macchina da presa, e poi sovrimpressioni, sfocature, etc. Un senso di movimento e fluidità inedito nel panorama mondiale del cinema, fino a quel momento. Tali virtuosistici movimenti di macchina furono resi possibili da un nuovo ritrovato tecnologico: la Stachow, una macchina da presa di soli otto chili, e quindi estremamente maneggevole, subito ribattezzata entfesselte kamera (“camera scatenata”), che veniva indossata da Freund attraverso una imbrigliatura. Un lontano progenitore, se vogliamo, della Steadycam di Garrett Brown.


Le scenografie, proiettate verso l’alto, sono rigidamente geometriche, senza scampo né scappatoie (o sei in alto, o sei in basso; o hai una divisa, una posizione, o non esisti). In una scena, il protagonista crede di vedere gli edifici nei pressi del suo hotel piegarsi e cadere sulla sua testa, qualcosa di molto simile a quanto Murnau aveva mostrato già due anni prima in Phantom (Fantasma, 1922). E, ad aumentare la profondità di campo, vi sono costruzioni in falsa prospettiva, mini-automobili guidate da bambini in secondo piano e, infine, auto e comparse di cartone situate sullo sfondo dell’inquadratura e manovrate a distanza. Il volto di Emil Jannings è materiale plastico, nelle mani del regista, almeno quanto gli altri materiali del profilmico. Il grande attore (nato in Svizzera ma cresciuto in Austria e passato poi a lavorare in Germania) aveva all'epoca solo quarant'anni. Il trucco per invecchiarlo richiedeva ben due ore al giorno. Il resto lo fa la titanica interpretazione di uno dei più grandi attori della stagione del muto, che fu sicuramente una delle ragioni del grande successo di questo film e dei due successivi di Murnau: Herr Tartüff (Tartufo, 1925) e Faust (1926).

L’ultima parte del film, fino ad allora tragico, amarissimo, sembra ribaltarlo in una commedia, un improbabilissimo happy end (come, ancora una volta, quello di Phantom), denunciato come tale persino dalla seconda e ultima didascalia. Un finale in cui il nostro portiere umiliato e offeso, deriso e annientato, improvvisamente se la ride, ride per ultimo (da qui, probabilmente, il "tradimento" del titolo italiano, dato che Der letzte Mann, letteralmente, significa "L’ultimo uomo").

Finale che non solo non riduce affatto l’angoscia di quanto visto in precedenza, ma ne amplifica quasi, per contrasto, la portata tragica. Ma di certo non era quello che avevano in mente Murnau e lo sceneggiatore Carl Mayer, la penna di punta del cinema tedesco degli anni Venti. Le pressioni in tal senso vennero sia da Jannings, sia dal capo della Universum Film (UFA), il brillante produttore Erich Pommer, che seppe abilmente coniugare il grande spettacolo col cinema d’autore, facendo per un breve periodo concorrenza a Hollywood. Con il trittico di opere dirette da Murnau e interpretate da Jannings, la UFA si affermò infatti sul mercato internazionale e il nome di Murnau divenne universalmente famoso, tanto da spingerlo, come Lubitsch prima di lui, a proseguire la sua carriera in America. Ma la carriera americana di Murnau fu, come si sa, tristemente breve: tre soli film, e poi la vita di uno dei più grandi registi mai esistiti fu spazzata via da un banale incidente d’auto, quando aveva solo quarantadue anni e ancora tante idee da realizzare.

Nei credits, come aiuto regista, troviamo il futuro regista di origine ceca Edgar G. Ulmer, il quale seguì Murnau a Hollywood, dove partecipò anche alla produzione dei suoi film americani.


Il Blu-ray del film è disponibile nell'ottimo cofanetto inglese Eureka - Masters of Cinema: Early Murnau - Five Films, che contiene anche Schloß Vogelöd, Phantom,

Die Finanzen des Großherzogs e Tartuffe (tutti i film hanno didascalie

in tedesco e sottotitoli in inglese opzionabili).

In alternativa si trova anche il DVD francese MK2.




Der Letzte Mann

(L'ultima risata)

a.k.a L'ultimo uomo

Germania, 1924

regia: Friedrich Wilhelm Murnau

sceneggiatura: Carl Mayer

fotografia: Karl Freund [e Robert Baberske]

aiuto regia: Edgar G. Ulmer

musica: Giuseppe Becce

scenografia: Robert Herlth, Walter Röhrig

produzione: Erich Pommer, per Universum-Film Aktiengesellschaft (UFA)

durata: 90’ - 7 rulli, 2315/2036 metri

cast: Emil Jannings, Maly Deschaft, Max Hiller, Emilie Kurz,

Hans Unterkirchen, Georg John, Olaf Storm, Hermann Valentine

première: 23 dicembre 1924

(1) Lotte Eisner, Lo schermo demoniaco. Le influenze di Max Reinhardt e dell’espressionismo, Editori Riuniti, 1983, p. 141.

 
 
 

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