The Cheat (I prevaricatori, 1915), Cecil B. DeMille
- Vittorio Renzi
- 12 nov 2015
- Tempo di lettura: 5 min

SINOSSI: Una signora dell'alta società, Edith Hardy (Fannie Ward), perde, in una speculazione, diecimila dollari che dovevano essere destinati alla Croce Rossa. Per coprire la perdita, si rivolge a Hishuru Tori (Sessue Hayakawa), un facoltoso commerciante giapponese: in cambio del prestito, però, l'uomo le chiede di diventare la sua amante. Edith, disperata, accetta. Ma, quando costui si presenta col denaro, lei non mantiene la promessa e gli si rifiuta. Preso il sigillo con cui contrassegna le statuette d'avorio della sua collezione, Hishuru Tori marchia a fuoco la spalla della donna. Segue una colluttazione al termine della quale Edith spara al giapponese ferendolo a un braccio. Per scagionare la moglie, Richard Hardy (Jack Dean) si accusa del tentato omicidio e viene arrestato. Durante il processo, Edith denuncia il giapponese, scoprendo la spalla e mostrando il marchio. Quella vista provoca nell'aula una forte reazione e i presenti insorgono. Tori che viene portato via dalle guardie, mentre Hardy viene riconosciuto innocente.

Conosciuto in Italia col titolo I prevaricatori, The Cheat è il primo film importante di Cecil B. DeMille, che aveva comunque alle spalle già una ventina di titoli, in soli due anni di attività. Ambientato nell'alta società di Long Island, il film mette in mostra, essenzialmente, il conflitto latente tra due mondi contrapposti, attraverso i personaggi principali: il signore e la signora Hardy, WASP a tutti gli effetti, e il giapponese Hishuru Tori. Questo conflitto, nella seconda parte del film, viene reso esplicito, oltre che dagli avvenimenti, anche attraverso una didascalia: “L’oriente è l’oriente e l’occidente è l’occidente, e mai i due si incontreranno”. Una didascalia non inerente alla narrazione, ma che invece fornisce direttamente una chiave, un’interpretazione, un’intenzione. Tanto è vero che la comunità giapponese si risentì e protestò per la negatività di cui viene ammantato il personaggio asiatico, di conseguenza il film fu ritirato dal mercato e rieditato nel 1918 con una variazione significativa: il giapponese Hiroshu Tori diventa il fantasioso “Haka Arakau, re dell’avorio birmano”. Ciononostante, questo personaggio conserva intatto tutto il suo fascino oscuro e basta una delle prime scene del film per appurarlo.
Siamo nella sua casa, dove Tori/Arakau sta mostrando a Edith Hardy la sua collezione di preziosi oggetti esotici. La donna nota come su ognuno di essi sia presente un marchio con un ideogramma e ne chiede lumi all'uomo. Che le risponde, avvicinandosi lentamente a lei e fissandola in viso: “Significa che appartiene a me”. Fu dunque anche grazie a questo fascino ambiguo, finanche perverso, che lanciò seduta stante la carriera di Sessue Hayakawa, approdato negli Stati Uniti solo due anni prima e destinato a diventare la prima grande star asiatica. Una carriera che conobbe fasi alterne e che culminò poi, nel 1957, con la candidatura per il miglior attore non protagonista in The Bridge on the River Kwai (Il ponte sul fiume Kwai, 1957) di David Lean. In questo suo primo grande successo, Hayakawa offre un’interpretazione magnificamente trattenuta, sibillina, che si rivela tanto più efficace, quanto più riesce a celare perfettamente la vera natura, predatoria e corrotta, del personaggio, che si rivelerà nella ben nota scena della “marchiatura” di Edith. Oltre a questo, il film si rivela una cruda analisi, senza infiorettature, dei giochi di potere della società borghese che tratta i rapporti interpersonali alla stessa stregua e con la medesima rapacità con cui porta a termine i suoi affari:
Pur nella sua violenza barocca, nella concretezza brutale dei suoi passaggi, The Cheat finisce per essere una parabola stilizzata sulle regole (economiche, libidiche, sociali) che presiedono alla vita umana; ed è ancora da brividi l'immagine di un universo chiuso in cui si incrociano, fino a rendersi indistricabili, la spirale vertiginosa del desiderio e il flusso del denaro guadagnato e perduto, la negoziazione finanziaria e la briga erotica. (1)

Un melodramma a tinte forti, dunque, pieno di tormenti e magniloquenza interpretativa (in realtà, mi riferisco unicamente al “divismo” di Fannie Ward, che oggi risulta forse l’aspetto più datato del film), ma anche di una regia elegantissima e ricercata, impreziosita dalla fotografia di Alvin Wyckoff, il quale applicò per la prima volta il sistema di illuminazione messo a punto dal produttore Jesse L. Lasky, noto appunto come “illuminazione Lasky” (o “alla Rembrandt”). Questo tipo di fotografia lasciava in ombra quasi tutta la scena (come si vede proprio all'inizio, quando viene presentato Tori nel suo studio), lasciando poi emergere un volto o un dettaglio illuminato da una luce violenta. Altre riuscite applicazioni sono la scena a “ombre cinesi”, in cui è ben utilizzata la posta scorrevole in stile giapponese del mercante asiatico, o quella in cui, in carcere, vediamo le sbarre della cella proiettarsi sulla parete e sul corpo e sul viso di Richard Hardy, smarrito, in piedi: il marito generoso e innamorato, arrestato per tentato omicidio. Un altro grande momento è la lenta carrellata sui volti dei giurati al processo, in cui il montaggio si fa più articolato, fra campi medi, lunghi e primi piani sui volti, per esprimere al meglio la tensione della scena. Difficilmente, dopo questo film, il cinema di DeMille sarà così affascinante nella sua ambiguità. Andrà invece a scolpirsi, monolitico e monumentale, nei grandi drammoni epici per cui tutti lo conosciamo. Ma a lui, come ebbe più volte modo di dichiarare, stava bene così.
Come ha fatto notare Noël Burch (2), in Francia è stato proprio The Cheat, insieme ad altri film americani di quel periodo, a portare finalmente nelle sale il pubblico borghese, il quale, legato alla letteratura e al teatro, fino a quel momento disprezzava il cinema come un passatempo per gente incolta, lamentando l'assenza di senso del dramma e di spessore psicologico dei personaggi.
Il successo del film fu così grande che ispirò ben tre remake, di cui due americani: il primo, muto, diretto da George Fitzmaurice (1923) e interpretato da Pola Negri, l'altro sonoro di George Abbott (1931), con Tallulah Bankhead. Nel vecchio continente, a portarlo sullo schermo fu uno dei più grandi interpreti del melodramma d'autore, Marcel L'Herbier, con il titolo Forfetaire (L'insidia dorata), lo stesso titolo con cui era stato distribuito il film di DeMille in Francia.
Il film è reperibile nel DVD italiano DCult
e in quello americano Kino (regione 1) abbinato a Manslaughter.

The Cheat
(I prevaricatori)
Usa, 1915
regia e montaggio e produzione: Cecil B. DeMille
sceneggiatura: Hector Turnbull, Jeanie Macpherson
fotografia: Alvin Wyckoff
musica: Robert Israel [1994]
scenografia: Wilfred Buckland
produzione: Jesse L. Lasky Feature Play Company
durata: 59' (5 rulli)
cast: Fannie Ward, Sessue Hayakawa, Jack Dean, James Neill,
Yutaka Abe, Dana Ong, Hazel Childers, Arthur H. Williams
data di uscita: 13 dicembre 1915
riedizione: 24 novembre 1924

1. Peter von Bagh, The Cheat, Treccani.it
2. Noël Burch, Il lucernario dell'infinito, Parma, Pratiche, 1994, pp. 71 e 88.
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